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LA FERRITINA ALTA

24 gennaio 2024

La ferritina è una proteina intracellulare in grado di stoccare il ferro e rilasciarlo quando l’organismo ne ha necessità: essa funziona quindi come un magazzino rappresentante le riserve del minerale.
Tale proteina la ritroviamo in quasi tutti gli organismi viventi inclusi i batteri, le alghe, le piante e gli animali.

Dal momento che alcune tipologie chimiche di ferro risultano tossiche per le cellule, la ferritina è in grado di mantenere il ferro in forma solubile e non tossica, regolandone l’omeostasi in casi di carenza o eccesso.

Solitamente la ferritina la troviamo sotto forma di proteina citosolica (presente nel citoplasma della cellula): essa è inoltre presente in molteplici tessuti, sebbene una piccola quota della stessa venga secreta all’interno del torrente ematico dove funge da carrier/trasportatore di ferro.

Grazie a tale caratteristica essa viene utilizzata come marker indiretto per valutare la quantità di ferro (inteso come riserva) all’interno dell’organismo: è infatti comune vederla dosata nei referti degli esami ematici, proprio allo scopo di valutare quanto ferro “residuo” abbiamo nel nostro corpo.

Dosaggi plasmatici fuori range possono essere indicatori di problematiche e che necessitano, quindi, di approfondimento medico: nel caso della ferritina bassa spesso si ricorre all’integrazione e supplementazione da parte di integratori o farmaci, mentre invece nel caso della ferritina alta vengono effettuati accertamenti sul funzionamento epatico e cure atte a normalizzarne i livelli.

 

 Struttura chimica

La ferritina è una proteina globulare di massa 474 kDa comprendente ventiquattro subunità: tali subunità hanno un diametro esterno di dodici nanometri e un diametro interno di otto nanometri.

Esse inoltre presentano differenze di varia natura in base alla tipologia di organismo a cui appartengono, ad esempio nei vertebrati e nelle piante tali subunità si configurano differentemente, sebbene la funzione finale della proteina resti la medesima.

Gli ioni di ferro vengono immagazzinati all’interno di un guscio proteico che prende il nome di apoferritina, la quale capta gli ioni di ferro in forma ferrosa Fe2+ e li ossida nella forma stoccabile, ovvero lo ione in forma ferrica Fe3+: la struttura “porosa” (a gabbia) della proteina è inoltre in grado di rinchiudere al suo interno fino a 4500 ioni ferro in stato di ossidazione Fe3+.

Facendo un passo indietro, analizziamo ora la struttura della ferritina nei vertebrati: in tali organismi, infatti, la ferritina si costituisce di etero-oligomeri di due prodotti genici leggermente differenti tra loro, la cui percentuale all’interno della proteina varia al variare dell’espressione di questi due geni distinti.

Ritroviamo due catene differenti denominate catena pesante (spesso indicata con lettera H) del peso molecolare di 21 kDa e catena leggera (spesso indicata con lettera L) del peso molecolare di 19 kDa.

Il rapporto tra catene pesanti e leggere permette un lieve differenziamento della funzionalità proteica dal momento che le catene leggere sono deputate più ad una funzione di deposito mentre invece le catene pesanti sono caratterizzate da una funzione tampone dei radicali liberi citoplasmatici, andando quindi a giocare il ruolo di limitatori del danno intracellulare.

È doveroso ricordare che il ferro libero risulta tossico per le cellule, andando esso stesso a generare radicali liberi e giocando il ruolo di catalizzatore di tali reazioni chimiche, altresì chiamate reazioni di Fenton.

Proprio per tale motivo vi è la necessità di stabilizzare e stoccare il ferro all’interno di strutture in grado di renderlo innocuo per le nostre cellule: entra quindi in gioco la ferritina, la quale dapprima capta gli ioni ferro (ruolo dell’apoferritina), li converte da ferro ferroso (Fe2+) a ferro ferrico (Fe3+) mediante una reazione di ossidazione, per poi stoccarlo all’interno delle sue subunità proteiche.

La ferritina si accumula all’interno delle cellule in strutture aggregate che vanno a formare l’emosiderina. 


Metabolismo e funzioni del ferro

Il ferro è un minerale indispensabile per la vita dell’essere umano.
Nell’organismo troviamo all’incirca 5g di ferro, di cui circa l’80% è presente nell’emoglobina, ossia quella proteina incaricata del trasporto dell’ossigeno dai polmoni alle cellule di tutti i tessuti corporei.

Nonostante la maggior parte di esso sia contenuto nell’emoglobina, abbiamo anche una parte dello stesso che funge da magazzino di riserva per la formazione e sintesi di nuove cellule, quali ad esempio i globuli rossi (che contengono emoglobina).

Questa porzione di minerale di “scorta” risulta essere legata alla ferritina poiché, come visto nel corso di questa trattazione, il ferro in forma libera risulta tossico e necessita quindi della ferritina per essere innocuo.

La ferritina infine si accumula all’interno di organi quali la milza, il fegato, il midollo osseo, sedi, guarda caso, della sintesi dei globuli rossi.

Nonostante il ferro sia presente in piccole quantità, esso assolve a numerose funzioni, prendendo parte alla formazione del gruppo eme, una proteina specifica contenuta negli eritrociti, la quale è in grado di legare l’ossigeno e di trasportarlo nel torrente ematico.

Inoltre lo troviamo anche in un’altra proteina, la mioglobina, che è una sorta di “emoglobina muscolare” avente il compito di fissare l’ossigeno proprio all’interno della cellula muscolare e pertanto in tutti i muscoli del nostro corpo.

Analizziamo ora nel dettaglio il metabolismo del ferro e il suo assorbimento.
Il ferro viene assunto tramite la dieta e gli alimenti che lo contengono, esso è contenuto prevalentemente in cibi quali carne, pesce, tuorlo d’uovo (l’albume ne è invece quasi privo), in alcune tipologie di verdure a foglia verde, nei legumi e nella frutta secca.

Come possiamo notare il ferro è presente sia in alimenti di origine animale, sia in alimenti di origine vegetale, tuttavia nelle fonti animali la quota di minerale risulta essere maggiormente biodisponibile e quindi assorbibile dal nostro organismo rispetto invece alle fonti vegetali.

Ma prima di proseguire con la trattazione è necessario fare un doveroso approfondimento sul concetto di biodisponibilità: con il termine biodisponibilità viene indicata la misura con cui un dato nutriente è in grado di essere assorbito e di entrare nel circolo sanguigno in seguito alla sua ingestione.

Un’elevata biodisponibilità significa che buona parte del nutriente ingerito verrà assorbito e sarà utilizzabile dal nostro corpo, viceversa una bassa biodisponibilità significa che nonostante vi sia presenza del nutriente, quest’ultimo viene assorbito solamente in piccola parte.

Come visto poco fa il ferro risulta essere più biodisponibile nelle fonti animali rispetto a quelle vegetali, tuttavia bisogna fare attenzione a considerare anche le quantità totali di ferro ingerito: spesso accade che consumare una porzione di alimento vegetale apporti quantitativi di ferro molto più alti se paragonati ad una porzione di alimento animale.
In tal caso la minor biodisponibilità viene compensata da un maggior livello di assunzione.

Inoltre bisogna anche considerare che alcuni cibi (quali il caffè e i cereali integrali) se assunti congiuntamente alle fonti di ferro, vanno a interferire con l’assorbimento, limitandone così la biodisponibilità.

Analogamente a questo concetto, la vitamina C e l’acido citrico aiutano invece ad aumentarne la biodisponibilità, pertanto quella frase fatta del “condire con il succo di limone fa bene perché aiuta l’assorbimento del ferro” non è infondata, anzi!
Tali nutrienti contenuti nel succo di limone consentono la riduzione del ferro da forma ferrica (Fe3+) a forma ferrosa (Fe2+), più facilmente assimilabile dal nostro intestino.

Il ferro viene assorbito a livello dell’intestino tenue e nello specifico nella parte prossimale: il duodeno.
Sulla superficie dei villi intestinali sono presenti le cellule specifiche deputate all’assorbimento dei nutrienti chiamate enterociti. Queste cellule sono in grado di captare dal lume intestinale oltre a proteine, carboidrati e grassi, anche i micronutrienti come vitamine e minerali.

Il ferro di tipo animale, denominato ferro di tipo “eme”, viene assorbito in maniera diretta mentre invece quello di tipo vegetale passa dal lume alle cellule in forma bivalente: contatto con l’acidità dello stomaco il minerale subisce naturalmente una riduzione, così come avviene con il succo di limone, favorendone il passaggio da forma ferrica a ferrosa.

Inoltre, sulla superficie degli enterociti è presente una proteina specifica denominata “Dcytb”, un particolare citocromo duodenale che svolge anch’esso funzione riducente. Il ferro in forma 2+ entra quindi nella cellula enterocitica sfruttando un trasportatore denominato “trasportatore bivalente del ferro” o dmt1.
Una volta entrato nella cellula intestinale il ferro passa poi nel sangue legandosi dapprima alla transferrina per poi essere immagazzinato nella ferritina.


Contenuto di ferro negli alimenti

Analizziamo ora i contenuti di ferro dei vari alimenti citandone di seguito alcuni esempi (quantità di ferro per 100g di prodotto):

Fabbisogno di ferro

I fabbisogni variano in base a sesso del soggetto, età, stato di gravidanza e allattamento.
Gli attuali LARN (livelli di assunzione raccomandati per la popolazione italiana) raccomandano un’assunzione di ferro di 11 mg al giorno per i lattanti fino all’anno di età, mentre invece in età adulta gli apporti si attestano a 10 mg al giorno per l’uomo e 18 mg al giorno per la donna.
Durante la gravidanza, invece, si arriva addirittura ad un fabbisogno di 27 mg al giorno, per poi attestarsi agli 11 mg al giorno nel caso dell’allattamento.

Ti sarai sicuramente accorto che la donna necessita mediamente di più ferro rispetto all’uomo, questa peculiarità è da attribuirsi alle maggiori perdite di ferro che interessano la donna, ovvero durante il ciclo mestruale. Maggiori apporti di ferro con la dieta garantiscono quindi il mantenimento dell’omeostasi, compensando le perdite e ripianando le riserve.

Non a caso nei soggetti di sesso femminile con ciclo mestruale abbondante, spesso incorriamo in carenze di minerale che possono, se non integrate, portare ad anemia.

 

Ferritina: range e ruolo diagnostico

Il dosaggio plasmatico della ferritina è una delle modalità esistenti per valutare lo stato delle riserve di ferro dell’organismo.
Sebbene i range di normalità siano molto ampi, non è raro incappare in valori al di sotto o al di sopra della normalità: nello specifico possiamo parlare di valori nella norma in un intervallo compreso tra i 13-150 ng/mL per la donna e compreso tra i 30-400 ng/mL per l’uomo.

Poiché le quote di ferritina extracellulare e intracellulare sono in equilibrio tra loro, è possibile utilizzare il dosaggio plasmatico della ferritina sierica in ottica predittiva essendo un buon indicatore del minerale, nei soggetti 1 ng/mL di ferritina sierica corrisponde a circa 8 mg di ferro presente nei tessuti.

Valori al di sotto della norma possono essere predittivi di stati di anemia, mentre invece in caso di valori superiori alla soglia (ferritina alta) è opportuno indagare sull’eziologia di tale sovraccarico, andando quindi a escludere eventuali patologie a carico del fegato oppure stati infiammatori acuti o cronici, neoplasie e infezioni.

Il fegato, nello specifico, è l’organo che immagazzina nelle sue cellule la maggior concentrazione di ferritina, esso è inoltre implicato nel catabolismo dello stesso: per tale motivo in casi di ferritina alta andrà valutata la funzionalità epatica ed eventuali danni presenti.

 

Ferritina alta: cure

Dopo aver effettuato gli appositi esami di accertamento, in cui viene esclusa la presenza di danni epatici o stati infiammatori, si ricorre ad una cura apposita.

Una delle opzioni percorribili a livello alimentare è quella di ridurre il consumo di tutti quegli alimenti che apportano grandi quantità di ferro (come abbiamo visto nell’elenco presente in questo articolo) nonchè di ridurne il suo assorbimento con dei prodotti o farmaci “chelanti”, in grado di ridurre l’assorbimento intestinale del ferro stesso oppure legandolo e eliminarlo tramite le urine.

Un’altra cura spesso utilizzata per tale scopo è la flebotomia, il cosiddetto “salasso”, tale pratica consiste in un vero e proprio prelievo di sangue finalizzato all’eliminazione del minerale; basti pensare che la rimozione di 500 ml di sangue permette di eliminare circa 250 mg di ferro.
Questa pratica è stata utilizzata sin dall’antichità con l’obiettivo di curare da alcune patologie che si pensava potessero avere cause derivanti da avvelenamento.

La flebotomia è stata abbandonata negli anni per via della sua dubbia utilità e, a mano a mano che la medicina progrediva ed evolveva, metodi e cure più innovative hanno nel tempo soppiantato il salasso.
Ad oggi, infatti, è stata dimostrata l’inefficacia di tale pratica per la maggior parte delle malattie, essa viene adottata solamente in casi di specifiche patologie quali l’emocromatosi, la policitemia e in alcuni casi anche per il trattamento della ferritina alta.
Nella maggioranza dei casi viene utilizzata a scopo di eseguire degli esami del sangue oppure per le donazioni ematiche a scopo trasfusionale.

 

Qual è lo specialista adatto?

Arrivati a questo punto della trattazione dovremmo aver quindi capito che la ferritina ha a che fare con il sangue, pertanto, qualora vengano rilevati valori anomali dagli esami diagnostici della stessa, si consiglia dapprima di consultare il proprio medico curante, che a sua volta valuterà una visita specialista a scopo di approfondimento.
Lo specialista in grado di far chiarezza sulla situazione è colui che si occupa delle patologie del sangue, ovvero l’ematologo.

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